venerdì 5 aprile 2024

UNA LUCE IN FONDO AL CAMMINO

 

A cura di Luigi Majorca



Ho letto e pubblicato molte vivenze rese dai cursilisti (aderenti al movimento dei Cursillos di Cristianità in Italia) orientate a testimoniare il cd. “Momento vicino a Cristo” ed a  volte ne ho trovate alcune più pregnanti di altre. Recentemente, leggendo un mio libro datato, ho recuperato una testimonianza resa da un amico (che per opportunità non nomino) la quale è diversa da tutte le altre non foss’altro perché il “momento vicino a Cristo” si concretizza in una sorta di  vangelo, che raccoglie parte della sua vita giovanile, quella più problematica e più difficile. Una testimonianza che presenta molti  spunti  degni di essere approfonditi con  echi da meditare e, perché no, dibattere. Poco importa se quanto pubblico non verrà letto da molti miei visitatori, poco importa se la testimonianza è lunga e difficilmente può essere letta nel telefonino, mi incuriosisce conoscere se quei pochi che la leggeranno sono in grado di  comprendere appieno e condividere “quella soluzione” con il cuore che si accende e si riscalda con il calore “dell’Amore soprannaturale”  in questo tribolato periodo di guerre, in un mondo che sanguina, meditando il profondo significato della attestazione di un autentico cristiano.




LA VIVENZA





"Incontrai Michele Pellegrino, docente di lettera­tura cristiana antica, e poi arcivescovo e cardinale di Torino, agli esami di concorso alla cattedra di italiano e latino nei licei.

Mi chiese, inquisitore dolce e paterno, non del suo Agostino, ma di Virgilio e di Orazio e di Lattan­zio; poi, a coronamento del colloquio, mi domandò: «Ha letto mai i Vangeli?». «Sì - risposi -, in latino, durante la mia prigionia nei Lager tedeschi». Un lampo di gioia balenò nei suoi occhi: «E che cosa trovò nei Vangeli?». «La forza che ci sorresse, la luce che ci guidò».

E raccontai come una sera del gennaio del '45 - quando più sembrava che tutto, gli uomini e il cielo e la terra, dovesse di lì a poco scomparire nell'immenso rogo in cui rovinava, con i suoi tristi dèi, il Terzo Rcich -, in una fetida baracca del campo di Wietzendorf, sperduto nella brughiera gelata, io e il mio compagno di giaciglio aprimmo il libriccino pre­zioso (era di un tenente, che del suo «castello» aveva fatto una cella di meditazione e di preghiera) e leg­gemmo, con voce sommessa, il discorso delle «Bea­titudini».

«Beati qui esuriunt et sitiunt...». Beati coloro che hanno fame e sete... Guardammo, attraverso quelle parole, più addentro in noi stessi; e scoprim­mo di quali inesauribili risorse si alimenta lo spirito quando tutto, intorno, è rovina e deserto...

«Beali qui persecutionem patiuntur...». Beati co­loro che patiscono persecuzioni... E ci stringemmo le mani come per un giuramento pronunciato su un altare invisibile: l'altare dell'anima...

La fame e il freddo stritolavano i nostri corpi; ma non cedemmo. Misere larve umane, tendemmo la nostra volontà verso la vita; e accettammo come un imperioso dovere - verso noi stessi, i nostri cari lon­tani, i nostri principi religiosi e morali - l'ultima più aspra e decisiva battaglia.

Nella piccola baracca trasformata in Cappella, umile e disadorna ma splendente d’amore e di pietà, attingemmo momenti indicibili di serenità e di pace. Nel suo raccolto silenzio, ai piedi del Cristo incoro­nato di filo spinato, offrimmo quel che di intatto ognuno portava dentro di sé, il fiore, non ancora inaridito, dei nostri sentimenti più puri e generosi; e ci sentimmo toccati da un bene che scendeva dal­l'Alto, da un dono di grazia che appariva tanto più grande quanto più sofferto era il nostro sacrificio, più consapevole la nostra rinuncia.

In fondo al nostro cammino vedemmo brillare una luce..."


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