Ho letto e pubblicato molte vivenze rese dai cursilisti
(aderenti al movimento dei Cursillos di Cristianità in Italia) orientate a
testimoniare il cd. “Momento vicino a Cristo” ed a volte ne ho trovate alcune più pregnanti di
altre. Recentemente, leggendo un mio libro datato, ho recuperato una
testimonianza resa da un amico (che per opportunità non nomino) la quale è
diversa da tutte le altre non foss’altro perché il “momento vicino a Cristo” si
concretizza in una sorta di vangelo, che
raccoglie parte della sua vita giovanile, quella più problematica e più
difficile. Una testimonianza che presenta molti
spunti degni di essere
approfonditi con echi da meditare e,
perché no, dibattere. Poco importa se quanto pubblico non verrà letto da molti
miei visitatori, poco importa se la testimonianza è lunga e difficilmente può
essere letta nel telefonino, mi incuriosisce conoscere se quei pochi che la
leggeranno sono in grado di comprendere
appieno e condividere “quella soluzione” con il cuore che si accende e si
riscalda con il calore “dell’Amore soprannaturale” in questo tribolato periodo di guerre, in un
mondo che sanguina, meditando il profondo significato della attestazione di un
autentico cristiano.
LA VIVENZA
"Incontrai Michele Pellegrino, docente di letteratura cristiana antica, e poi arcivescovo e cardinale di Torino, agli esami di concorso alla cattedra di italiano e latino nei licei.
Mi chiese, inquisitore dolce e paterno, non del suo
Agostino, ma di Virgilio e di Orazio e di Lattanzio; poi, a coronamento del
colloquio, mi domandò: «Ha letto mai i Vangeli?». «Sì - risposi -, in latino,
durante la mia prigionia nei Lager
tedeschi». Un lampo di gioia balenò nei suoi occhi: «E che cosa trovò nei
Vangeli?». «La forza che ci sorresse, la luce che ci guidò».
E raccontai come una sera del gennaio del '45 - quando
più sembrava che tutto, gli uomini e il cielo e la terra, dovesse di lì a poco
scomparire nell'immenso rogo in cui rovinava, con i suoi tristi dèi, il Terzo
Rcich -, in una fetida baracca del campo di Wietzendorf, sperduto nella
brughiera gelata, io e il mio compagno di giaciglio aprimmo il libriccino prezioso
(era di un tenente, che del suo «castello» aveva fatto una cella di meditazione
e di preghiera) e leggemmo, con voce sommessa, il discorso delle «Beatitudini».
«Beati qui esuriunt et
sitiunt...».
Beati coloro che hanno fame e sete... Guardammo, attraverso quelle parole, più
addentro in noi stessi; e scoprimmo di quali inesauribili risorse si alimenta
lo spirito quando tutto, intorno, è rovina e deserto...
«Beali qui
persecutionem patiuntur...». Beati coloro che patiscono persecuzioni... E ci stringemmo le mani come
per un giuramento pronunciato su un altare invisibile: l'altare dell'anima...
La fame e il freddo stritolavano i nostri corpi; ma non
cedemmo. Misere larve umane, tendemmo la nostra volontà verso la vita; e
accettammo come un imperioso dovere - verso noi stessi, i nostri cari lontani,
i nostri principi religiosi e morali - l'ultima più aspra e decisiva battaglia.
Nella piccola baracca trasformata in Cappella, umile e
disadorna ma splendente d’amore e di pietà, attingemmo momenti indicibili di
serenità e di pace. Nel suo raccolto silenzio, ai piedi del Cristo incoronato
di filo spinato, offrimmo quel che di intatto ognuno portava dentro di sé, il
fiore, non ancora inaridito, dei nostri sentimenti più puri e generosi; e ci
sentimmo toccati da un bene che scendeva dall'Alto, da un dono di grazia che
appariva tanto più grande quanto più sofferto era il nostro sacrificio, più
consapevole la nostra rinuncia.
In fondo al nostro cammino vedemmo brillare una luce..."
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