venerdì 30 settembre 2022

Credo che una grande colpa di un certo cristianesimo.....

 

Don Paolo Scquizzato

OMELIA XXVII domenica del Tempo Ordinario. Anno C

«Gli apostoli dissero al Signore: 6-″Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
7-Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8-Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9-Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10-Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”». (Lc 17, 5-10)
Credo che una grande colpa di un certo cristianesimo – di sempre – sia stato quello di tradire la terra in nome del cielo. Pensare che tutto si risolva in un indefinito ‘aldilà’, mentre qui, in questa ‘valle di lacrime’ siamo solo di passaggio, e che per quanto ora possiamo soffrire, ciò che ci sarà riservato in paradiso ci farà dimenticare tutto il male subìto.
Ebbene, no. Questo non è cristianesimo, questo non è vangelo ma soprattutto non è essere uomini e donne di fede. Gesù non ha mai identificato la fede col quieto vivere, non ha mai invitato a tradire la terra in nome del cielo, non ha mai parlato di aldilà come dimora di anime pie, o di premi di consolazione celesti per religiosi frustrati.
Dovremmo inserire nei nostri catechismi una virtù in più, ovvero la ‘fede nell’umanità’. Forse, prima di credere in Dio, sarebbe necessario cominciare a credere nell’uomo: «la fede nella possibilità che l’uomo ha di liberarsi del suo male è una qualità straordinaria. La fede nell’uomo è la fede nell’impossibile, è la fede, per esempio per chi lotta perché il mondo sia fatto da uomini eguali fra loro e senza violenza» (Balducci).
Ci portiamo dentro l’idea che l’uomo – per la sua innata debolezza – da solo non ce la può fare, che ci voglia comunque un dio che lo sollevi, che gli dia una mano, che lo aiuti con la sua santa ‘grazia’. Ma il Vangelo di oggi è chiarissimo: ‘solo dopo che hai fatto tutto ciò che dovevi fare, solo dopo aver vissuto da uomo, fino all’estremo, sino alla morte, solo dopo potrai dire “sono un servo inutile”’. Ma non prima. Non ti è dato disertare la storia, sino a quando non sarai venuto alla luce della tua squisita umanità, fino a quando non diventerai finalmente vivo. Anche perché ‘alla fine’ a risorgere saranno solo i vivi, non i morti.
L’uomo religioso invece ha l’insana abitudine di dire già in corso d’opera: ‘sono inutile’, e ‘ho bisogno di un dio come stampella delle mie insufficienze, tappabuchi della mia inconsistenza’.
La fede nell’umano occorrerebbe mettere in campo nel nostro vivere quotidiano. Fede come fiducia nella capacità di bene insita in noi stessi, nella nostra retta coscienza, nella nostra profondissima capacità di amare. Si sposterebbero così montagne di odio e di violenza, d’intolleranza e d’ignoranza.
Oggi, ancora qualcuno crede in Dio, ma chi crede ancora nella bontà dell’uomo?
«Abbiamo avuto uomini che hanno saputo morire per il futuro dell’umanità, hanno dato voce alla specie umana e sono morti per questo. Che importa se dicevano che in cielo non c’è nessuno? In cielo ci sono tanti idoli. Ce li abbiamo messi noi. Forse è una via necessaria anche quella di spopolarlo, visto che molta sostanza di umanità è stata proiettata e come alienata nel cielo delle immaginazioni. Quel che conta è la fede nel futuro dell’umanità. Dobbiamo essere intransigenti contro i rassegnati. I veri nemici del futuro non sono i cattivi, i terroristi, ma i rassegnati.
C’è una serenità illegittima, come quella di certe comunità di fede che si riuniscono e poi si nutrono di Alleluja in un mondo pieno di armi. La fede seria è quella che ci mette di fronte all’Epulone e al Lazzaro e ci chiede di pronunciarci» (Balducci).

mercoledì 28 settembre 2022

Bentornata Ultreya

Il Rettore, Pippino, con l'assistente Spirituale don Angelo Saraceno



L'accoglienza




L'INVOCAZIONE DELLO SPIRITO SANTO


LA VIVENZA






DAVANTI AL SANTISSIMO PER LE PREGHIERE PERSONALI



I SALUTI. A LUNEDI' PROSSIMO



 

sabato 17 settembre 2022

MA IO OGGI COSA POSSO FARE ?

 Don Paolo Scquizzato

OMELIA XXV domenica del Tempo Ordinario. Anno C


A questo punto la domanda: “Ma io oggi cosa posso fare?». La medesima che si pone l’amministratore infedele e corrotto della nostra parabola.
Gesù non ha mai detto di abbandonare il mondo e tanto meno di gettare via le proprie sostanze, ma di usarle in maniera ‘scaltra’ (cfr. v. 8). Questo mondo iniquo comincerà a dissolversi – forse – nel momento in cui si comincerà a vivere nella logica della condivisione, che dovrà divenire stile di vita non solo personale (e in questo supererà l’elemosina), ma famigliare, e poi di quartiere, cittadino, nazionale, mondiale.
Attenzione: non è questione di dare, ma di condividere!

Le prime comunità cristiane impararono ben presto che a rendere compiuta e felice una vita non poteva essere la prassi religiosa interna ad una sinagoga, e neanche la cura del proprio ristretto nucleo famigliare, ma il mettere quanto posseduto in comune perché nessuno potesse dirsi bisognoso (cfr. At 4, 34), e di partecipare alla moltitudine la miseria dei propri ‘cinque pani e due pesci’ per poi sperimentare il miracolo che quel cibo solo perché condiviso può anche essere moltiplicato, divenendo così sufficiente per tutti (cfr. Mt 14, 17ss).
Una domanda: tutto questo è forse utopia? Sogno? Ingenuità? Probabilmente, ma qualcuno, a partire da Gesù di Nazareth ci ha creduto e l’ha vissuto, testimoniando che è la sola modalità di vita che permetterà agli uomini di vivere una storia più forte della morte, perché col sapore dell’amore e quindi capace di far vivere per sempre

sabato 10 settembre 2022

LUCA AMA LA PERDITA ....

DON PAOLO SCQUIZZATO

 OMELIA XXIV domenica del Tempo Ordinario. 

Lc 15, 11-32

In questo Vangelo tutti perdono qualcosa. Un pastore perde una pecora, una donna perde una moneta e poi c’è un padre che se non perde un figlio, lascia di fatto che un figlio si perda.
Luca ama la perdita e la condizione dei perduti: per lui in fondo l’Amore è proprio per questi, tanto da far dire a Gesù: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò̀ che era perduto» (Lc 19, 10).
La divinità è come aborrisse il vuoto, e fosse obbligato a riempirlo. Vige, nelle cose di Dio, una sorta di legge di natura: come il gas riempie ogni anfratto trovato vuoto, così l’energia divina riempirà ogni spazio di non presunzione, di abbandono.
Non dobbiamo far nulla nei confronti della divinità, se non arrenderci, depositare armi ed espedienti posti in essere per conquistarla. Occorre ‘rimanere’, e accorgersi che la meta è sempre stata qui. Dobbiamo solo goderne.
Il ‘figlio maggiore’ della parabola ragiona in maniera diametralmente opposta. Lavora molto per il suo padre/padrone. Non disattendendo un comando del suo datore di lavoro alla fine pretende il salario-ricompensa, quello riservato ai servi. Ma il padre gli dirà: ‘tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo’. Siamo della stessa sostanza, come puoi fare qualcosa per me? Devi solo prendere consapevolezza che sei già ciò che vorresti essere: “Ciò tu sei”, tu sei me! Non devi raggiungere nulla, perché non c’è nulla da raggiungere!

Il figlio minore ha vagato, ha sperperato, è rimasto senza nulla, e proprio per questo può fare esperienza del Nulla, ossia della divinità che non è né questo né quello.
‘Chi perderà la propria vita la troverà’ dice Gesù, infatti il perduto non può far altro che abbandonarsi e sprofondarsi nella pasta di cui è costituito, il divino, sperimentando in questo modo la beatitudine, lo stato di quiete, di pace non dipendente da fattori esterni, da prestazioni e conquiste. E qui non vi è più paura e ansia. Se la divinità è vero che giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, ricompense, desideri- allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. Perché, lo ripetiamo, la divinità per sua natura, come la sabbia e l’acqua, saturerà tutto ciò che è vuoto.
«Dove e quando egli ti trova pronto cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura» (Meister Eckhart).

sabato 3 settembre 2022

DI VITA NE ABBIAMO DUE

 

Don Paolo Scquizzato

OMELIA XXIII domenica del Tempo Ordinario. 

Lc 14, 25-33

Per trasformarci da servi a discepoli, da fantocci ad esseri umani, occorre ‘odiare’ ogni tipo di potere in grado d’inficiare il nostro vero Sé.
Sarebbe necessario disidentificarci con ogni dimensione storica, con la nascita e la morte, gli alti e i bassi, gli inizi e le conclusioni. In questo modo impareremo a conoscere ciò che sta a fondamento del nostro essere, ovvero la realtà suprema, o se vogliamo il nostro vero Sé.
«Sulla superficie dell’oceano ci sono molte onde, alcune alte, altre basse, alcune belle, altre meno. Tutte hanno un inizio e una fine. Ma quando entrate in profondo contatto con le onde, realizzate che le onde sono fatte soltanto d’acqua, e dal punto di vista dell’acqua non ci sono inizio e fine, alti e bassi, nascita e morte» (Thich Nhat Hanh).

Sebbene siamo onda, ci persuadiamo d’essere ‘solo’ questo, dimentichi di essere invece l’acqua che costituisce l’onda. Diamo importanza alla forma dell’onda, al suo peso, alla struttura, a ciò che – per quanto possa essere bello e prezioso – è comunque momentaneo, impermanente. La nostra profonda realtà è essere quell’acqua che non ha inizio e fine, infinita, senza nascita e senza morte. Ma ci inganniamo, investendo le nostre energie su ciò che si muove in superficie.
Per questo Gesù insiste sull’esigenza di staccarci da tutto ciò che impedisce di vivere veramente, rompendo con l’illusione che la vita risieda in ciò che è destinato a passare, fossero anche cose belle e importanti appunto come gli affetti più cari (padre, madre, figli, fratelli, sorelle…) e persino la propria vita. Certo, perché di vita ne abbiamo due, quella biologica che si nutre dell’effimero, che è costituita da nascita e morte, e la Vita che ci attraversa, che è da sempre e destinata a non finire, e ci fa partecipare come nell’Uno a tutto e a tutti.