OMELIA XVIII domenica del Tempo Ordinario. Anno C
Don Paolo ScquizzatoLc 12, 13-21
Gesù disse loro una parabola:
“La
campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava
tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così –
disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi
raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai
a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e
divertiti!”. Ma Dio gli disse:
Così è di chi accumula
tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”». Accumulare tesori per sé,
questo è il principio della sofferenza. Tutte le tradizioni ricordano che
illudersi di edificare la propria vita edificando, costruendo, attaccandosi al
potere, l’avere, il successo è il principio della propria sconfitta
esistenziale. T.S. Eliot scrive: ‘Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?’.
Certo, perché come ricorda Gesù, vi è solo un modo per vivere veramente:
morire a sé stessi, ossia risvegliarsi dal sonno dell’illusione. Questo
significa: arricchirsi presso Dio: cogliere, esperire, vivere la realtà
essenziale, autentica della nostra vita. Sapere che c’è una Vita oltre la vita
cui merita dedicarsi, e quindi nutrirla, farla crescere. Come già detto a
commento del vangelo di qualche domenica fa, il rischio mortale che corriamo
tutti, è dare importanza a ciò che è vapore, all’inconsistente,
all’impermanente e che il Qoelet, nella prima lettura di oggi, traduce con
vanità. Viviamo l’illusione che la realtà, i nostri granai, i nostri
attaccamenti, le nostre sicurezze siano fonte della felicità quando invece
sono solo accessori, mezzi ma non il fine. Riposarsi, mangiare, bere,
divertirsi, edificare, ingrandire… son tutte cose importanti, belle magari ma
non toccano ancora la Vita. Questa sta oltre, o sotto. È la Realtà autentica,
il Fondamento, ma ad appannaggio solo dei risvegliati, dagli attenti, dei
saggi. Esistere non vuol dire ancora vivere. La vita stessa di Gesù testimonia
tutto ciò.
«La sua morte non è l’esaltazione del nulla, della vanità, ma è la
negazione della vanità perché abbiamo capito, una volta per sempre, che si può
anche morire non morendo. Chi muore perché c’è qualcosa di più grande della
dialettica vita-morte – cioè l’amore – costui non muore» (E. Balducci). Esiste
un modo di vivere tale da percepire la vita come una metamorfosi continua, per
cui da una parte si sente il proprio corpo come un lento disfarsi, ma
dall’altra si ha la forte consapevolezza che la vita vera si sta rinnovando in
sé in ogni istante, come un crescendo verso una pienezza e un compimento. È
ciò che Paolo intuì scrivendo ai corinzi: «non ci scoraggiamo, ma, se anche il
nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di
giorno in giorno» (2Cor 4, 16). Insomma, «Vivono solo coloro che non hanno
trovato pace nelle provviste fatte» (Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella).
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